articoli di d. Angelo


 

"… PERCHE' NULLA VADA PERDUTO"


Secondo il Vangelo di Giovanni, a dare l'ordine fu proprio lui, il Signore Gesù.
Dopo che i cinquemila furono saziati con i cinque pani e i due pesci, disse ai discepoli: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Riempirono dodici canestri" (Gv. 6,12).
Era rispetto per la fame futura di altri, per la fame del giorno dopo e quindi attenzione a chi ne avrebbe potuto usufruire nei giorni a seguire? O era rispetto per quei poveri pezzi di pane sbocconcellati, attenzione data anche a un pane che non fosse intero?
Penso siano vere entrambe le interpretazioni: L'attenzione di Gesù alle persone e la sua attenzione alle cose. Anche alle cose non intere.
Forse non siamo lontani dal vero se insistiamo a immaginare la tenerezza dei suoi occhi che indugiano sui pezzi di pane, ora raccolti nei dodici canestri. Dodici come le tribù di Israele.
C'è da incantarsi davanti a un Dio che moltiplica i pesci e i pani. Ma forse c'è ancor più da incantarsi davanti a un Dio che fa raccogliere ogni più piccolo frammento.

IL DESIDERIO DI DIO

Il desiderio di Dio è che nulla vada perduto. Nulla. Poco importa se è solo un piccolo strappato frammento. E chi di noi ha la pretesa di essere tutto intero?
Nelle parole di Gesù "perché nulla vada perduto" splende un senso di sconfinato rispetto per ogni più piccola cosa. E dunque chiamati a guardare cose e persone con l'attenzione e il rispetto che abitavano gli occhi del Signore Gesù.

UNA PAUROSA REGRESSIONE

In fatto di rispetto abbiamo subito negli anni una paurosa regressione. E' corale, diffuso, il lamento: "Non c'è più rispetto!".
"Rispetto" è parola che viene dal latino, dal verbo "respicio"; e significa "guardare indietro", "riguardare": la cosa ti è passata sotto gli occhi e tu indugi a riguardarla, anche quando è fuori campo. E' il contrario della superficialità, della disattenzione, della fretta, della noncuranza, del menefreghismo.
"Tutto mi sta a cuore": aveva fatto scrivere Don Lorenzo Milani, sulle pareti di quella improbabile scuola che durava tutto l'anno.
Il rispetto. Tutto mi sta a cuore. Nulla deve andare perduto.

PERSONE COME TOZZI DI PANE

Non vada perduto nessuno.
Il giorno dopo di quell'incredibile miracolo sul monte - la folla aveva mangiato, ma non aveva compreso il segno - Gesù riprese quasi alla lettera il verbo "andare perduto", usato per le ceste del pane, questa volta applicandolo non alle cose, bensì alle persone.
A Cafarnao, al di là del lago, presso la Sinagoga, volle dirci ancora una volta qual è il desiderio di Dio, anzi la sua "volontà": "Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato" (Gv. 6,39).
E lo diceva dei discepoli, di noi che, come loro, siamo tutt'altro che perspicaci: abbiamo occhi e non vediamo, mangiamo il pane e non leggiamo il segno.
Ebbene a noi basta molto meno per liquidare le persone, per togliere loro stima e rispetto, per lasciarle "perdere".
Lui invece infaticabile a dare olio pure al lumino dalla fiamma smorta, a sostenere pure la canna spezzata, lui alla ricerca insonne di una singola pecora perduta. Lui si incanta anche davanti a uomini e donne che sono un pane sbocconcellato.
Ogni giorno incontriamo uomini e donne che non sono pane intero. E ogni giorno uomini e donne incontrano me, che non sono un pane intero.
Avessimo noi negli occhi il rispetto e la tenerezza di Dio per ognuno degli esseri viventi.

UN SUSSULTO PER LE COSE

Nulla vada perduto. Anche delle cose.
E' tempo che noi reagiamo con forza e tenacemente resistiamo al degrado tristissimo delle cose nelle nostre città. Città purtroppo depredate, tozzi di pane e non pane intero.
Ma perché ulteriormente dissacrarle, malmenarle, abbruttirle?
E' vero subiamo ogni giorno l'ira funesta di una generazione di imbrattatori - in tutti i sensi "imbrattatori": anche le tangenti imbrattano moralmente le città! -.
Ma perché non ritrovare coralmente un sussulto di rispetto per le cose?
E i fiori tornano a ingentilire i balconi; e le aiuole delle piazze, da discariche comunali, ritornino prati verdi; e le piante malate trovino finalmente chi con amore se ne prenda cura; e la gente scenda, appena s'accende l'alba, a togliere dai marciapiedi le auto, perché alle mamme sia dato passarvi con le carrozzine dei loro bambini; e le scalinate delle chiese e delle metropolitane ritornino ad essere scale e non squallidi bivacchi; e i giovani non turbino più di schiamazzi incomposti il mistero della notte e sappiano parlare sottovoce quando nella casa accanto si sveglia un morente o un malato. E le cose di tutti abbiano una cura, se possibile maggiore di quella che usiamo alle nostre. E nulla, se possibile, per quanto è possibile, vada perduto.

LA PERDITA DI UN TESORO

Neppure il dolore vada perduto. Così come non è andato perduto il dolore del Signore crocifisso. Troppo prezioso il dolore, perché si sprechi nel vuoto dell'insignificanza .Mi ritornano alla mente alcune pagine di un piccolo libro di Don Carlo Gnocchi, indimenticato cappellano degli alpini sul fronte russo e apostolo dei mutilatini.
Scrive in "Pedagogia del dolore innocente": "Dopo lo scoppio della bomba, Marco, l'unico superstite dei quattro bambini, che, ignari e spensierati, giocavano su di un campo minato, era stato immediatamente sottoposto all'intervento chirurgico: amputazione delle gambe, estrazione del bulbo oculare e regolarizzazione delle vaste ferite che ne crivellavano il fragile corpo palpitante. Lo vidi qualche tempo dopo l'operazione, quando ancora le medicazioni quotidiane lo facevano tanto soffrire e gli domandai: "Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?".
"A nessuno", mi rispose con una punte di meraviglia nella voce.
"ma tu non credi che ci sia qualcuno al quale potresti offrire il dolore, per amore del quale tu dovresti reprimere i lamenti e inghiottire le lacrime e che potrebbe aiutarti a sentir meno il tuo dolore?".
Marco fissò nel vuoto il viso devastato, guardando con l'unico occhio stranito e poi, scuotendo lentamente la testa, disse " Non capisco…" e tornò a giocherellare distratto con l'orlo del lenzuolo.
Fu in quel momento che io ebbi la precisa, quasi materiale, sensazione di un'immensa irreparabile sciagura: della perdita di un tesoro, più prezioso di un quadro d'autore o di un diamante di inestimabile valore.
Era il grande dolore innocente di un bimbo che cadeva nel vuoto, inutile e insignificante, soprannaturalmente perduto per lui e per l'umanità (…).
Nel 1950 i Mutilatini di guerra recarono al Papa Pio XII un dono singolare e simbolico. Si trattava di una riproduzione del loro distintivo consistente nel monogramma di Cristo interpretato in forma del tutto nuova: dove il chi era formato da due stampelle incrociate e fasciate da una corona nobiliare, ad indicare che la sofferenza umana, innestata su Cristo, forma una cosa sola, forma il Cristo mistico, e soltanto in questo modo può ricevere la corona del merito e del premio.
Quel simbolo però era composto da tante perline, ognuna delle quali traeva origine da un'operazione chirurgica o da una medicazione dolorosa sopportata da un mutilatino senza lamento e senza pianto.
E quando riferii al S .Padre che avevo visto bambini, nel reparto di chirurgia, lottare tenacemente contro l'invasione del pianto, mordendosi le labbra per aver diritto di prendere una perlina e di deporla nella cassettina del Papa, Pio XII si fece improvvisamente pensoso, e nel suo sguardo tremò una lacrima di tenerezza e di riconoscenza.

don Angelo


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