articoli di d. Angelo


 

VOCE DI UNO CHE GRIDA NEL DESERTO?

Il calendario liturgico segna la sua nascita il giorno 24 giugno: Natività di S. Giovanni Battista. Lui, il Patrono anche della nostra Parrocchia.
Sarà forse un destino -mi chiedo- che la sua voce gridi nel deserto? Anche la sua festa corre il rischio ogni anno di essere celebrata in una città che l'esodo per ferie sempre più fa deserta. Una festa "disertata"?
Qualcuno ha pensato che fosse bene anticipare la ricorrenza per noi alla seconda domenica di giugno: sarà ogni anno la festa del Patrono. Perché la voce non gridi nel deserto.

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Ma forse non basta anticipare nel calendario, se il cuore, la comunità, la città non diventano il luogo della vera celebrazione.
Dopo tutto è un profeta, per di più un martire, e nello splendore più affascinante di una liturgia solenne in suo onore, mi si potrebbe d'un tratto ammutolire il cuore, solo che qualcuno osasse ripetere la parola antica: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le trombe dei giusti e dite: "Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti, e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti" (Mt. 23,29-31).
E così nel cuore di liturgie solenni mi sentirei impietosamente riportato il problema, quello -mi si passi la parola- dell'uso dei santi.
Accendi un cero o accendi una memoria? E se accendi un cero, è per accendere una memoria?
Volesse il cielo che le moltitudini affollassero la nostra chiesa per onorare il Patrono. Ma riuniti a che fare? A rischiare un battesimo di conversione o ad accendere lumi perché ci sia risparmiato lungo l'anno di correre rischi. Ma non è forse un rischio -e quale!- il credere?

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E se la voce -la sua- non griderà nel "deserto" e se gli occhi -i nostri- fisseranno il dito puntato, teso a indicare, senza possibilità di equivoci: "Ecco l'agnello di Dio!", non dovremmo forse colmare i nostri disorientamenti, che ci vedono alla ricerca affannosa di chissà quali altri segni o indicazioni, quando lui, e solo lui, il Cristo, morto e risorto, è il segno dall'Alto?

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E anche noi chiesa, se la sua voce non gridasse nel "deserto" delle coscienze, se ancora lo sentissimo dire: "Occorre che lui cresca e che io diminuisca", non dovremmo di conseguenza farla finita con le nostre -neppure tanto velate- manie di protagonismo, con la seduzione, spesso vincente, delle telecamere e dei riflettori e ritornare ad essere un semplice e povero dito puntato?

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Se la sua voce non griderà nel "deserto" e prenderà forza nei nostri cuori, quel martirio perpetrato senza testimoni, lontano da ogni sguardo, nel buio di un carcere, martirio patito per non venire meno alla trasparenza provocatoria della verità, non finirà di inquietare i nostri volti pallidi, i nostri cangianti trasformismi, dove più che la verità può la convenienza, può l'interesse.

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Se la sua voce non griderà più nel "deserto" e nelle coscienze prenderà forza la testimonianza accesa dal profeta vestito di peli di cammello e nutrito di locuste e mele selvatiche, lo udremo, oggi come ieri, dire alla moltitudini: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto" (Lc. 3,11).
Quasi un'eco di quella sua voce è nell'Enciclica "Sollecitudo rei socialis": "Fa parte -è scritto-" dell'insegnamento e della pratica più antica della chiesa la convinzione di essere tenuta per vocazione ad alleviare la miseria dei sofferenti vicini e lontani, non solo col "superfluo", ma anche col "necessario". Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino: al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dare pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo. Come si è già notato, ci viene qui indicata una "gerarchia di valori" -nel quadro del diritto di proprietà- tra l'avere e l'essere, specie quando l'avere di alcuni può rivolgersi a danno dell'essere di tanti altri" (n. 31).

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Se la voce non griderà più nei nostri deserti, ma nel cuore delle nostre città, dove, a volte, in nome dell'alta finanza o della necessità politica, tutto sembra possa essere venduto, venduto e comprato, storie mai finite di corruzione e di tangenti, attualissima -eppure quanto antica!- suonerà la sua parola: "Non esigete, nulla di più di quanto vi è stato fissato. Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno".

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Ma non sarà -mi chiedo- che noi forse neppure osiamo la domanda? Le folle accorrevano e lo interrogavano: "Che cosa dobbiamo fare?".
Noi fuggiamo la voce che sa di inquietudine, quasi voce di un gigante, che non a tutti è dato di imitare.
Eppure anche il gigante dello spirito conobbe la lacerazione del dubbio, uno dei tanti nostri dubbi e forse il più insidioso: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?" Il nostro dubbio nei giorni in cui l'ingiusta prigione rimase chiusa e il braccio di Dio sembra si sia accorciato.
E tu, Signore, ci mandi a dire che anche oggi i ciechi vedono, i sordi odono, i muti parlano, gli zoppi camminano e ai poveri è annunciata la buona notizia.
Forse non abbiamo fede sufficiente per strappare il "miracolo" o forse non abbiamo occhi, per vedere i segni del Regno in mezzo a noi.

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Noi ce ne andiamo per la nostra città. E ci arde in cuore una speranza.
Oggi -sappiamo- è il giorno in cui la madre sterile ricevette la fecondità, oggi è il giorno in cui il padre muto ricevette la voce.
La città sterile, la chiesa muta, la nostra sterilità, i nostri silenzi...e il miracolo atteso.

Don Angelo


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