articoli di d. Angelo


 

L'ETERNO E IL TEMPO

Tu dici "Non ho tempo..."
Altri dicono: "Non so come passare il tempo: le ore sono tutte uguali e vuote. Questa solitudine mi uccide..."
Dunque il problema e il mistero del tempo, evocato e quasi dilatato anche da questo trascorrere di un anno nell'altro - il vecchio anno nel nuovo -, la notte trascorre nell'alba.
E, insieme, la sensazione che un tempo -un tempo ulteriore- ci è dato.
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La suggestione dello scorrere del tempo, quasi amplificata dal luogo inusitato in cui mi ritrovo a stendere quelle riflessioni: lo scompartimento di un treno in partenza che si sta gradualmente riempiendo, mentre la voce assordante dell'altoparlante riempie di sé le alte volte della stazione Centrale, segnalando arrivi, partenze, ritardi.
Parte anche questo treno. E subito perforiamo muraglie bianche di nebbia. Cancellata è ogni figura: vai come nel mistero.
Sagome imprecise, quasi larve di realtà umane, affiorano, come spettri di sopravvissuti, in un mare di opachi biancori, mentre la sirena del rapido va segnalando in modo ossessivo la sua invisibile presenza e forse anche la sua paura dell'ignoto.

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Il tempo di chi vive e il tempo di chi muore.
Vado a esaudire un desiderio, quello di Maria Rita, che sta "partendo": si parte anche per un cancro. Ormai è alla morfina, una delle ultime spiagge del tempo.
La precarietà del tempo. D'istinto mi si illuminano nella mente alcune pagine della Bibbia: quella del Qoelet, per esempio, con la sua smagata riflessione sulla povertà del tempo:
"C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
c'è un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante...
Un tempo per piangere e un tempi per ballare...
Per ogni cosa c'è il suo momento,
il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo."

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Dunque la povertà del tempo. Una povertà inconsciamente negata, quasi rimossa da questa generazione -la nostra- che "gioca e guarda" (così l'ha sorprendentemente fotografata l'ultima immagine del CENSIS), una generazione che denuncia la propria incapacità a prendere la vita così come è, e non a brandelli.
Quasi un rifuggire inconscio da una vita accolta nella sua globalità.
Storditi dalle immagini televisive che adorano ed esaltano gli uomini forti e belli, ricchi e affascinanti, rimuoviamo dalla coscienza pagine e pagine di vita che ci rimandano immagini diverse, che pure appartengono alla realtà quotidiana e che sarebbero da amare: immagini di vecchiaia, di malattia, di solitudine, di povertà, di una vita sobria e austera, di impegno a volte oscuro e faticoso; e finiamo per rincorrere il mito di una classe brillante, quasi ultima spiaggia della nostra immaginazione, con la conseguenza, purtroppo amara, che stiamo diventando tutti uguali, banali, acritici.

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Quasi si rifugge o ci scandalizza della misura povera della vita.
Penso perciò che non è privo di suggestione il fatto che l'inizio dell'anno nuovo ancora porti i riverberi del mistero di una nascita umile e povera, il mistero di un Dio che non si scandalizza della povertà del tempo.
La parola che il Natale ha acceso nel buio delle nostri notti non è di certo la parola "evasione", bensì la parola "incarnazione".
"Il verbo si è fatto carne". E la "carne" è l'immagine della nostra fragilità: il Verbo chiuso nel piccolo grembo di una ragazza palestinese.
Certo il grembo è spazio angusto, oscuro, silenzioso; ma custodisce, pur nel segreto, una dolcezza, una tenerezza, un calore, sconosciute a tante immagini scintillanti, coreografiche che nascondono faticosamente vuoto di vibrazioni, assenza di pensiero, deserti dello spirito.

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Vivere il Natale significa anche accogliere senza rancore questa povera misura del tempo che segna di sé la nostra vita e le esperienze umane.
Essere dentro, illuminandole dal di dentro come ha fatto il Signore, dentro le situazioni della gente comune, senza inseguire paradisi artificiali, dentro con la fiducia di chi alla sua pazienza sa aggiungere un nuovo anno, in attesa che l'albero faccia frutto, non con la precipitazione e il fanatismo di chi mette la scure alla radice dell'albero.

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Dentro a capire e a stupirsi anche per la luce custodita in questi tuoi ultimi giorni, Maria Rita.
Hai preparato tutto, quasi fosse ora di partire e invece l'attesa si prolunga.
"Attesa senza senso": direbbe qualcuno, leggendo sul tuo volto i segni di un lungo ed estenuante soffrire. "Un tempo perduto": direbbe qualcuno.
Tempo ancora di doni dolcissimi ed emozionanti, per chi sa leggere "oltre".
Sconvolgente e affascinante, ad un tempo, è questo tuo parlare senza veli di una fina che non è fine, di un tempo che s'inoltra nell'eterno, di un Volto, che tutti ci auguriamo volto di tenerezza e misericordia.

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Questo mistero del tempo, Signore, avvolto da nebbie che sembrano tutto nascondere, ingrigire, vanificare.
E questo pericolo di gridare l'assenza di significati, il vuoto di vita.
Ma basta un raggio di luce, basta questo pallido sole, Signore: Ed ecco affiorare da pianure di nebbia, quasi isola inattesa. la dolcezza di un casolare: un rigo di fumo fuoriesce dall'alto comignolo.
La casa è abitata, nonostante tutto, Signore.
E tu hai messo la tenda in mezzo a noi.

don Angelo


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