articoli di d. Angelo


 

LA CUSTODIA, LA SEGRETEZZA, IL CANTO


"Custodia": la parola conserva un fascino. Sembra evocare un amore, una difesa, una protezione, per qualcuno, per qualcosa.
Essere uomini e donne della custodia, uomini e donne che sanno amare, difendere, proteggere.
A quest'immagine della custodia vorrei affidare le mie riflessioni alla vigilia di un tempo una volta sacro -lo potrà essere ancora?- della Quaresima.
Custodire un tempo sacro significa anche proteggerlo dall'invasione: invasione della superficialità, dell'indifferenza che tutto appiattisce, tutto riduce, tutto impoverisce. E non ci sono più stagioni. Forse anche dello spirito. Non esistono più primavere nè autunni.
Custodire dunque la diversità, amare la diversità, proteggere la diversità dei tempi, la diversità della Quaresima. Proteggila nella sua diversità, che è ricchezza.

La Quaresima a sua volta evoca quasi d'istinto un'altra immagine di indubbio fascino, quella del deserto: i silenzi e la segretezza del deserto.
Un'immagine forse oggi improponibile -me lo chiedo- nella città degli urlatori, dei predicatori, degli imbonitori? Città delle parole urlate e dei silenzi negati. Città del rumore e del frastuono, un rumore che ha invaso le stesse chiese, dove tutto ora è spiegato e non c'è più il silenzio del mistero che ci trascende.
Custodire la Quaresima significa allora custodire come tesoro, tesoro prezioso, ma purtroppo svenduto anche nella prassi ecclesiale, il tesoro della segretezza.
Il deserto evoca la segretezza di un incontro intimo, di un "a tu per tu" con Dio, che ti riconduce all'essenziale di una vita che sia una vita e non una mascherata, di un uomo e di una donna che siano uomo e donna veri e non dei robot.
"In effetti" -scrive E. Drewermann- "non esiste praticamente un pericolo più grande per l'umanità che quello di vivere nel modo che noi oggi consideriamo doveroso, garantiti all'esterno in ogni genere di necessità esteriore, ben provvisti, satolli, pasturati con tutto ciò che il cuore desidera, rigurgitanti di cianfrusaglie materiali fino all'inverosimile, eppure in una condizione tale come se sulla nostra anima si stendesse uno strato plumbeo sempre più pesante, grigio e soffocante.
Per stare dietro alle semplici preoccupazioni della vita quotidiana corriamo il pericolo di dimenticare sempre più chi siamo veramente e che cosa davvero potrebbe vivere in noi.
La cosa più difficile della nostra vita è perciò anche quella più necessaria: smettere di fuggire verso gli altri e accettare il momento inesorabile e tremendo della solitudine, che è l'unico in cui ci possiamo trovare faccia a faccia con noi stessi, senza finzioni e diversioni.
Per imparare a conoscere la verità della nostra vita, le voci degli altri devono essere messe a tacere. Quello che è determinante non è ciò che gli altri pensano e consigliano, lodano e criticano, ma ciò che si trova veramente dentro di noi".

Alla segretezza evangelica -"Il Padre ti vede nel segreto... "- che ci fa pellegrini dell'interiorità, pellegrini verso una dimora silenziosa, quella del cuore, abbiamo sostituito una sorta di spettacolo religioso, un turismo religioso, un mondo in cui la religione stessa viene consumata e tutto ritorna al punto di prima, perché nulla accade nel cuore. Tutt'al più rimane la fatica di raccattare cocci e carte, finito lo spettacolo.
Il mio osservatorio -lo confesso- è limitato e il mio giudizio di conseguenza non vale più di tanto, ma ho come la sensazione che entrare oggi nelle chiese non significhi per ciò stesso entrare nello spazio dell'interiorità, nello spazio del "faccia a faccia con Dio". Non sempre le chiese sono terra di intimità e di deserto. A volte le liturgie stesse brillano per la loro potenza e prepotenza.
Mi chiedo che cosa rimanga dell'invito di Gesù, non ancora cancellato dal Vangelo: "Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto" (Mt. 6, 6).
Paradossalmente ci è più facile aprire le porte della chiesa che chiudere la porta: chiudere alle spalle la porta che introduce al segreto del cuore.
Nel lontano 1962, visitando una parrocchia della nostra diocesi, Paolo VI, allora cardinale Montini, diceva:
"Gesù dice ancora: il regno dei cieli, cioè l'autenticità della comunicazione della vita di Dio alla vita umana, è simile a un fermento nascosto, interiore, inserito nella massa della vita profana; cioè ci dice che la realtà della vita cristiana non sta tanto nelle sue manifestazioni esteriori, nelle osservanze puntuali della disciplina canonico-giuridica al di fuori di noi: è nell'interno di noi. Il Regno di Dio è dentro di noi: cioè dobbiamo credere che la vita cristiana comincia a vivere, quasi si consuma nell'interno del cuore.
Una religione che non sia personale, che non sia viva nella coscienza, che non abbia per sua culla e per suo tempio il nostro cuore è qualche cosa, sì, di sempre bello e di sempre prezioso, ma non è viva, non è operante, non è quello che il Signore vuole e pensa per noi. Vuole un cristianesimo interiore che scenda nel segreto del nostro cuore, entri nella cella intima, nel nostro modo di pensare e di sentire".

Dobbiamo confessarlo, a volte ci prende una sorta di paura, di disagio interiore, al solo pensare di rimanere un'ora o anche meno, con noi stessi: quasi una paura del nostro stare nudi davanti a Dio, una paura della nostra nudità.
Ma il Dio della Bibbia è un Dio che non si scandalizza della nostra nudità. E se la nostra nudità ci fa paura, teneramente la copre.
Ci ama così come siamo, ci copre con la sua misericordia e ci restituisce la veste nuova della festa, la festa della libertà ritrovata, la libertà di essere noi stessi, non più schiavi della paura: "Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura" (Rom. 8, 15).

Il deserto biblico, figura del pellegrinaggio dello spirito, diventa così una terra di canto; un canto ritrovato, una giovinezza ritrovata, un amore ritrovato, secondo le parole del profeta Osea: "La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore... là canterà come nei giorni della sua giovinezza" (Os. 2, 16-17).
Posso sbagliarmi, ma non era esortazione all'ipocrisia l'invito di Gesù a profumarsi il capo e a lavarsi il volto quando si digiuna. Se hai ritrovato te stesso, la tua luce, hai ritrovato il canto e dunque lavati e profumati.
C'è bisogno -oggi più che mai- di una chiesa che canti con i volti lavati e il capo profumato.
Sedevo una sera in una chiesa della nostra città ad ascoltare con tanti altri i soliti monotoni discorsi di quelli che si sentono autorizzati a proclamarsi a ogni piè sospinto chiesa. Sentìi una ragazza alle mie spalle commentare: "Ma che noiosa questa chiesa!".
Noiosi tutti noi, e di conseguenza noiosa una chiesa quando non si canta più con i volti lavati, con il profumo dell'autenticità, quando si dimentica il passaggio nodale, quello della segretezza evangelica, il passaggio del deserto.

don Angelo


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