articoli di d. Angelo


 

NELLE CASE ACCENDONO UNA LUCE

Ognuno di noi conosce paesi o piccoli centri in cui le chiese sbucano riconoscibilissime da un grappolo di case: non hai bisogno di molte indicazioni per trovarle.
Sembrano quasi disegnate in spazi sacri: hanno un po' l'aria un'isola felice.
Qui nella grande città mi sto abituando a questo ritrovare le chiese d'improvviso, senza essere introdotti: volti l'angolo, percorri un pezzo di strada e, lungo il marciapiede -quasi non te ne accorgi- casa accanto a casa, senza stacco di contiguità, ti si affaccia una chiesa.

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Potrebbe essere un segno. Segno di un Dio che ha messo la tenda -la sua- in mezzo alle nostre; non si è creato un mondo a parte.
E in questa contiguità si potrebbe forse anche leggere un invito: a non estraniarci dalla vita degli uomini.
Certo non basta che l'edificio sia contiguo, quasi legato alle case.
Occorre che la comunità -quella di coloro che si riconoscono in Cristo- sia appassionatamente radicata nelle case della gente.
Fino a che punto lo siamo?
Fino a che punto io prete conosco la vita -quella vera, quella feriale- della mia gente?
Anche le case possono diventare fantasmi, facciate anonime.

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Sarà anche giustificata, ma già mi lascia più d'una perplessità in cuore la scelta dell'anonimato, una scelta -così mi sembra di capire- dettata dalla paura.
Al citofono delle case ti succede oggi di non trovare più un elenco di nomi, ma solo dei numeri, come se alla paura altro rimedio non ci fosse rimasto se non quello di cancellare i volti.

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Il problema indubbiamente non è solo di dare un nome alle case, ma quello di dare un volto alla vita che oggi vi è custodita, alle gioie, alle speranze, alle sofferenze, alle fatiche di cui quotidianamente quelle mura sono testimoni.
Ci sono episodi che a volte alzano improvvisamente un velo e ti fanno pensare. Ti fanno cioè misurare in tutta la sua ampiezza lo scarto che intercorre tra le iniziative che noi proponiamo e la realtà che nelle case ogni giorno si vive.
Pochi mesi fa Mariolina, che sta aspettando il suo quarto bambino mi diceva: "Sai, don Angelo, sto arrivando al punto che, per venirmi a confessare, dovrò chiamare una baby sitter".
La sua non era una denuncia né le parole suonavano condanna: non ne sarebbe capace. Non c'era ombra alcuna di amarezza nell'intensità dolce dei suoi occhi, solo il candore di una confessione.
Per alcuni giorni quelle parole mi rimasero in cuore: erano come un invito a "entrare" nelle case, nelle situazioni, negli orari; nella gioia ma insieme nella fatica di una giovane mamma che ogni giorno è chiamata a dare se stessa al marito, ai suoi bambini, alla sua professione e alla sua preghiera, all'intimità e ai mille lavori di una casa, che certo sono trasfigurati dalla tenerezza con cui contempli persone e cose, ma che pure esigono tempo su tempo.

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E mi andavo chiedendo se di tutto questo noi teniamo conto.
Quando la domenica ci succede di invitare la gente a iniziative e incontri settimanali, no abbiamo l'aria inavvertitamente l'aria di chi parla come se la gente avesse le giornate vuote e non sapesse come occupare il proprio tempo, con la conseguenza poi di sentirci delusi se la risposta non è corale come avremmo immaginato e sognato?

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Tu, Signore, ci inviti a "entrare": entrare nelle case e non accontentarsi di giudicare le facciate.
Forse non è questa, è l'altra, l'esegesi di quelle tue parole custodite nel vangelo di Luca: ai discepoli dicevi: "Rimanete in quella casa.... Non passate di casa in casa" (Lc. 10, 7).
Ma a me piace pensare che il tuo fosse anche un invito a non andare di casa in casa troppo sbrigativamente, a vol d'uccello. E tale sarebbe il nostro andare se fosse un passare da turisti o da ospiti distratti; un venire e un andare senza ascoltare i problemi, senza fissarli indelebilmente nel cuore, senza misurare il peso che portano le spalle della gente.
"Abbiamo imparato a valutare il carico massimo di una nave, la portata di un ponte, il carico di un cammello e di un cavallo e non ci curiamo di sapere fin dove reggono le spalle di un uomo" (don Primo Mazzolari).

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Dunque capire quanta fatica oggi comporti il mestiere di vivere; e, nello stesso tempo, non lasciarci schiacciare, svuotare, inaridire.
Il richiamo dell'Arcivescovo all'educare, letto in questo orizzonte, è suggestivo e stimolante.
Se la nostra casa diventasse il luogo delle mille cose da fare, dei mille impegni da rincorrere giornalmente e non lasciasse più spazio al comunicare, crescerebbe a dismisura un senso di vuoto e di smarrimento.
Oggi sono tante le agenzie informative che si affacciano alla nostra vita con le più disperate visioni e interpretazioni della realtà.
Ma ci accorgiamo anche di appartenere ad una società atomizzata, dove le informazioni non vanno al di là della spiegazione del "frammento".
Ci si sente muti -muti e soli- di fronte ai grandi interrogativi che sono la domanda di senso, interrogativi davanti ai quali la società sembra non avere niente o quasi niente da dire, perché i suoi criteri sono quelli del successo, del guadagno, della competizione.
E ognuno si sente più solo.
Che tu abbia un'immagine sociale interessa a tanti; ma che tu sia te stesso sembra non interessare nessuno.
Soli quindi davanti ai grandi interrogativi che riguardano il nascere e il morire, il lavorare e l'innamorarsi, il corpo e l'anima, il credere e il non credere, la famiglia e il mondo, questa terra e l'altra.
Interrogativi che non riguardano più il "frammento", bensì il senso di tutto.

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Per questo oggi forse non è più sufficiente che le famiglie vengano in chiesa. Occorre che si riprenda a dialogare nelle case.
Una cattedra dell'educazione è eretta, anche se invisibile, in ogni casa. Vi si può salire ogni giorno se, nonostante l'urgenza delle cose, nonostante gli apparenti insuccessi educativi, teniamo aperto nelle case lo spazio dell'interrogazione, della comunicazione, del confronto, del dialogo; se amiamo cioè soffermarci a parlare non solo del "frammento", ma anche di quel disegno totale che dà senso al piccolo frammento.

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Dunque nelle nostre case, dove il tempo è diventato merce rara e preziosa, avere il coraggio di "perdere tempo": perdere tempo a guardarsi negli occhi, tempo ad ascoltare, tempo a lasciarsi interrogare dall'altro, tempo a ricercare insieme, tempo a risignificare le cose, tempo per accorgersi di essere alla fine non muti né soli.
Tempo per accendere una lucerna che illumini tutti quelli che sono nella casa, lucerna che diventi lampada sul cammino di ciascuno.

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Tempo dell'educazione, che significa tempo della fiducia. Una fiducia che va recuperata. Essa riposa su una certezza: Dio educa il suo popolo.
"Dio è in mezzo a noi. Dio ha educato ciascuno di noi. Dio continua ad educare. Noi impariamo da lui, lo seguiamo, gli gli facciamo fiducia, ed egli ci guida e ci conduce" (Card. C.M. Martini).

don Angelo


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