articoli di d. Angelo


 

FAMIGLIA "PICCOLA CHIESA"

Sali le scale e sei subito solo, solo coi tuoi pensieri: è come se ti perdessi ancora con gli occhi in un volto, come se ti rimormorasse ancora nel cuore il dialogo che si è da poco interrotto.
Oggi - chissà perché - salendo le scale mi sorprendo a pensare alla stranezza e alla bellezza di questa casa -la casa parrocchiale- dove ti basta aprire una porta per ritrovarti nella penombra di una chiesa: casa e chiesa quasi affacciate, per una sorta di innamoramento, l'una sull'altra.
E l'immagine ha un suo fascino, soprattutto in questi giorni di fine gennaio in cui siamo soliti evocare nella liturgia il mistero della famiglia.

LÀ DOVE LA CASA SI FA CHIESA

Sì, che la famiglia diventi chiesa dentro le pareti di una casa, "famiglia piccola chiesa", come ai tempi avevano lucidamente preconizzato, non senza qualche sospetto d'eresia, come purtroppo succede, alcune voci profetiche, poi limpidamente riabilitate e esaltate dal Concilio.
Famiglia piccola chiesa, cioè spazio aperto al mistero, non casa murata, dalle finestre perennemente chiuse, dove ci si va ossessivamente fissando sulla materialità delle cose, quasi non esistesse una luce "oltre" che ci fa vivere.
Se la casa non ha finestre che si affacciano al cielo e vetri di trasparenza che si lasciano attraversare dal miracolo della luce, è destino che ogni cosa lentamente ma inesorabilmente intristisca.
Famiglia che diventa spazio religioso perché aperto all'interrogazione; questa e non altra -se non erro- è l'"arte" che oggi ci è chiesta: non quella di seminare risposte prefabbricate, ma quella, ben più impegnativa, di seminare interrogativi e di suscitare inquietudini circa il senso di ciò che sta "oltre", nel tentativo di leggere "oltre", perché tutte le cose, secondo la limpida e suggestiva intuizione del poeta portano scritto "più in là".
Famiglia che si fa spazio di chiesa perché la abitano creature capaci di spezzare nell'esistenza quotidiana il pane del vangelo, in forza di un magistero che non cade dall'alto né ha bisogno di declamazioni retoriche, ma nasce dalle fertilità delle cose e ha il dono inconfondibile della spontaneità della vita.
Succede così che fatti e situazioni -come ci avvertiva il nostro Arcivescovo in una delle sue prime lettere pastorali- entrino nelle famiglie "non più in forma grezza e incombente, ma attraverso quel filtro di sapienza e di serenità che è la Parola di Dio".
Famiglia che si fa chiesa perché ancora riconosce la suggestione di quell'invito lontano ma non decaduto dal Maestro a chiudere la porta della camera più interna e, chiusa la porta, pregare quel Dio che ascolta nel segreto.
Casa dunque che si fa chiesa.

LA CHIESA SI FACCIA CASA

Sì, la chiesa si faccia casa, perché la chiesa - sto parlando, voi mi capite, non della chiesa di mattoni, ma di quella di pietre vive che siamo noi- se non si fa casa, se non l'investe "l'aria di casa", diventa niente più che una grigia stazione di servizio dove, più o meno egregiamente, ti vengono erogate delle prestazioni o, tutt'al più, un albergo dove uno viene, prende e va: chiesa dove nulla avviene che ti strappi dall'angoscia della solitudine del cuore, nulla che favorisca il mutuo riconoscersi e la gioia del comunicare.
L'"aria di casa" in una parrocchia passa per lo stupore e la trasparenza dei volti, per il trasalimento del cuore, la tenerezza dei gesti, l'ospitalità immediata: la porta aperta e il lume acceso, il cuore in attesa e gli occhi lucidi di gioia e di simpatia.
L'"aria di casa" è là dove i silenzi e l'intensità degli sguardi contano più degli innumerevoli e sterili vaniloqui, là dove le presenze illuminano di gioia il volto e le assenze pesano e segnano il cuore.
Che famiglia infatti sarebbe quella dove ci si accontentasse di quelli che sono in casa e non si vivesse perennemente l'inquietudine per quelli che -non senza colpa nostra forse- sono fuori casa? E come chiudere la porta tranquilli la sera, sapendo che qualcuno è ancora fuori?
A questa verifica ci ha ancora una volta luminosamente invitati il nostro Arcivescovo nella sua ultima lettera: "Farsi prossimo nella città", là dove dice:
"È necessario privilegiare quelle scelte e far emergere quelle priorità pastorali che configurano il volto della Parrocchia come volto familiare e fraterno, come trasparenza del "volto di Dio".
Per volto si intende la declinazione completa della realtà parrocchiale, il suo linguaggio, i suoi gesti, le sue intenzioni profonde, potremmo dire il suo carattere. È aperto o chiuso? disponibile o irascibile? accogliente o elitario? dialogico o scontroso? umile o saccente? (cfr. Sintesi del primo ambito).
Il problema serio della Parrocchia è dunque quello di chiedersi: come rivelo il volto di Dio? la Sua carità? la Sua misericordia? la Sua disponibilità? Come accolgo lontani e vicini, anche quelli "scomodi"? Come accolgo i carismi suscitati dallo Spirito?
Perché la Parrocchia possa rendere visibile la Chiesa della carità, occorre rivedere con coraggio la sua conduzione nella catechesi, nella liturgia, nella possibilità per donne e uomini, giovani e adulti di essere protagonisti della costruzione della comunità.
Alcune prassi vanno cambiate, con equilibrio, ma anche con coraggio. Alcune voci di bilancio vanno riviste, con serenità, ma con determinazione.
Alcuni Consigli Pastorali vanno rinsanguati per stile, partecipazione, programmi.
È la carità che illumina i cambiamenti personali, di gruppo, di comunità, fino ad arrivare alla testimonianza di cui erano capaci i primi cristiani".

don Angelo


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