articoli di d. Angelo


 

IL NATALE E IL SIMBOLO LACERATO

Agli occhi degli ingenui sembra un gioco.
Sembra un gioco questo aspettare ogni anno il Signore, quasi un corale far finta che non sia ancora venuto. E dunque stare presso la soglia con il fiato sospeso a sognare impercettibile rumore di passi o timido bussare alla porta.
E non è un gioco.
Forse perché il Dio della Bibbia è un Dio che appare e scompare, Dio degli umili inizi.
Il canto degli angeli che illumina il campo dei pastori nella notte è un lampo. Rimane il buio della grotta; rimane il campare la vita migrando insonnemente dietro i greggi.
Così all'inizio, così alla fine, quando i due pellegrini - quelli di Emmaus - in una notte che fece ardere il cuore, videro il suo volto illuminarsi a tavola nel gesto, non più equivocabile, dello spezzare il pane; la fragranza di un altro pane sembrò profumare la locanda. Ma fu un lampo. E subito il risorto scomparve dai loro occhi. E l'odore era quello delle cose di sempre.

COME LA FIAMMA GELIDA

Forse anche per questo ancora ti attendiamo: sei un Dio che scompari ai nostri occhi: vicino e lontano a un tempo. E le cose sembrano riprendere l'odore di sempre.
Dio dell'estrema vicinanza nel grembo tenero di una donna. Dio della lontananza nella ruvida paglia di una mangiatoia, Dio dell'ultima lontananza sul legno scabro della croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
E io sono qui ancora ad attendere. Forse per questo, come un bambino, posso portare il peso della tua assenza, perché so che tu ritorni. Anche una madre, un padre, un figlio, una figlia, l'amato, l'amata del cuore se ne vanno né puoi imprigionarli ininterrottamente tra le braccia; però sai che fanno ritorno. E forse anche per questo la loro e la tua lontananza è peso, alla fine, sopportabile al cuore.
Rimane l'attesa. L'attesa evocata nel brivido di una poesia di Renata Bosio Arosio - vive tra noi - in una raccolta che mi è giunta tra le mani in questi giorni lunghi di Avvento:

Ti portiamo dentro
come la fiamma gelida
dei momenti fermi
quando
la voce è sorda
l'eco non risponde.
Le campane
hanno suonato.
Il vento pure è passato.
In fondo seduto
sta il piccolo Dio
e attende.

DEFRAUDATI DEL SIMBOLO

Che il Natale sia ancora da celebrare, ce lo vanno ripetendo, d'altro canto, troppe situazioni del mondo, troppe immagini della storia, voci e voci che ogni giorno raccogli dentro e fuori di te: il peso quotidiano dei dolori e delle tragedie che attraversano l'umanità, il peso quotidiano delle nostre intime contraddizioni, il peso dell'assenza di Dio.
E questa sensazione, a volte irrespirabile di invecchiamento! E questa paura che troppe cose, alla fin fine, si siano sporcate! E la paura, questa sì terrificante, che sporcato si sia il cuore. Sporco il cuore, è sporca ogni cosa.
Viene da chiedersi se non siamo stati alla fine defraudati anche del simbolo del "bambino", un simbolo legato ininterrottamente per generazioni al mistero del Natele: un Dio che si fa bambino.
Segno è che qualcosa si è rotto, se nei sobborghi di Parigi un clochard viene ucciso da bambini, se a Liverpool dei ragazzini massacrano un bimbetto, se a Civitavecchia stupratori di bambine di undici anni sono ragazzini minorenni.
E forse ancor più che i fatti, a segnalare che qualcosa si è rotto sono le giustificazioni addotte: quasi che portare minigonne o rossetto alle labbra giustifichi atteggiamenti predatori e di possesso.
Alle mille e mille immagini che pesano sul cuore - le guerre infinite, la disoccupazione che lacera le notti di troppe famiglie, l'immigrazione che si trova a fare i conti con inverni sempre più gelidi -, ora si aggiunge anche questa, dell'imbarbarimento di un simbolo.
E nello sporcarsi lacerante del simbolo ecco apparire la cifra di tutto, il male ultimo che ci consuma.
Che i nostri bambini siano diventati come noi adulti questo ci inquieta. Ci inquieta il non poterli più collocare tra quelli che ancora si incantano.
Ma non era forse imperdonabile ingenuità la nostra: quella di sognare che i bambini crescessero integri, incontaminati, senza contagi in una società sempre più violenta, predatoria, dispotica? Non avrebbero, prima o poi, fatto loro il gioco avvilente degli adulti?
Ora non rimane che pregare:

Siamo divenuti tutti
come cosa impura
e come panno immondo
sono tutti i nostri atti
di giustizia.
Tutti siamo avvizziti
come foglie;
le nostre iniquità ci hanno portato via
come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si riscuoteva per stringersi a te.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla
e tu colui che ci dà forma:
tutti noi siamo opera
delle tue mani. (Is. 64,5-7).

E L'ARGILLA RIPRENDE FORMA

E dunque che l'argilla riprenda forma, quella delle origini , quella che precedeva le parole mozzafiato rivolte alla donna: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen. 3,16).
Che tutti possiamo riprendere forma. E a darci forma sia un Dio Bambino, ora che i bambini, quelli veri, si son fatti sempre più rari per le strade del mondo.
E dalle nostre dispersioni fare ritorno tutti nella terra del Natale, la terra dove la cultura è quella dell'incarnarsi e non quella del violare, quella del rispetto e non quella dell'abuso, quella dell'attenzione e non quella del menefreghismo, quella del parlare sottovoce, e ancor più dell'ascoltare e non quella dell'urlare a più non posso, quella della discrezione e non quella dello sfondare le porte, quella dell'accarezzare e non quella del dominare, quella dell'attesa e non quella della pretesa.
L'attesa, che è nelle mani di un Dio vasaio, un Dio che plasma e riplasma insonnemente, pazientemente, fiduciosamente l'argilla: l'argilla povera e informe. Sognando.
E imparare ancora una volta da quelle mani, le sue mani: imparare ad accarezzare ogni argilla, poco importa se deforme e povera; accarezzarla come fa Dio. Sognando.

don Angelo


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