articoli di d. Angelo


 

SE QUESTA È UNA CITTÀ
"Non c'era posto per loro… " (Lc 2, 7)

È come se fosse un assedio.
E a subire l'assedio è il cuore. Forse il cuore di tutti noi che abitiamo una città, una delle tante, una come tante.
Assediati dal fenomeno degli stranieri, dal loro volto, dai loro problemi.
Assediati nel cuore.
È un segno, un segno dei tempi. E se lo respingi, se lo rimuovi da una parte, ecco che subito sbuca e ti si ripropone da un'altra.
E il segno non è chissà dove. Non è nemmeno dall'altra parte della città. È a pochi passi. È quasi fisicamente sulla tua pelle.

LA CASCINA ROSA

La Cascina Rosa non appartiene alla mappa canonica della nostra parrocchia. Ma non è nemmeno così lontana: fa parte della zona 11, cui apparteniamo.
Quando se ne cominciò a parlare per via di un'ingiunzione dell'autorità comunale che la giudicava pericolante, tra le sue mura diroccate e fatiscenti erano accampati un centinaio di stranieri, per lo più marocchini.
Mi lasciò un'ombra di indignazione nel cuore - e forse più di un'ombra - una riunione di decanato, in cui si discettava, a "scarica barile", sulla sua parrocchia di appartenenza. Mi rividi nei panni del sacerdote e del levita della parabola.
E anche questa è triste storia. Come triste storia è che della disumanità di alcune situazioni ci si accorga solo quando il dramma approda scandalisticamente sulle pagine dei quotidiani.
Una storia infinita. Una tristezza infinita, perché trascina con sé, dilatandoli, paesaggi di umanità ancor più derelitta, dove l'invivibilità si rivela ancor più squallida e raggelante.
I servizi infatti su la Cascina Rosa e i suoi drammi, ospitati sui giornali, hanno sortito come effetto che altri stranieri vi approdassero, quasi come a una Terra Promessa. E ora sono trecento.

LA "GRANDE MILANO"

Dietro l'immagine, ripetuta fino all'incantamento, di una Milano metropoli, la "grande Milano", forse è legittimo un dubbio: questa è una città?
Mi chiedo se è una città questa che ogni sera conosce l'assalto di gente senza un tetto al cosi detto "Hotel Paura", le vetture ferroviarie, ferme nella notte alla Stazione Centrale.
Occupazioni, coperte dal segreto delle ombre, ma non per questo garantite dalla tragedia.
Ancora una volta una lotta tra poveri. E basta poco perché l'"Hotel Paura" diventi albergo di fuoco per due ragazzi stranieri, sorpresi nel sonno e avvampati in torce umane nei vagoni in attesa, sui binari bui, illuminato a giorno nel rogo della notte.
Se questa è una città…

A CHE SERVE INDIGNARSI ?

Perché - mi chiederete - inquietare le nostre coscienze e disturbare la nostra pace in questa vigilia dolce di Natale?
A che serve indignarsi?
Sarà. Ma mi è difficile non pensare che tra poco noi credenti ci indigneremo- ci indigniamo ogni anno - ascoltando nelle chiese quella pagina del Vangelo di Luca, dove è scritto che per Gesù di Nazaret e per quella giovane madre incinta, per quel parto dolcissimo. "non c'era posto". Così il Figlio di Dio e la madre, costretti a dormire fuori, in un rifugio improvvisato.
A quel punto della grande narrazione ci indigneremo per quella insensibilità disumana, per quel vuoto di accoglienza. Però fuori di chiesa, fuori del Natale, non ci succede forse di perpetuare nel tempo e nello spazio quella disumana insensibilità e quel vuoto di accoglienza?
E accendiamo luci nella città. Ma forse solo per illuderci: non le accendiamo invece per chi è fisicamente nel buio.
E facciamo doni. A quelli che già sono accolti. E può succedere anche che il dono non sia più per rivelare e sorprendere tenerezza sui volti, ma per pareggiare l'immagine sociale; per tutto, per accoglierci fra noi.
A volte mi prende un dubbio: che il Signore proprio per questo abbia scelto di condividere alcune tra le situazioni più disumane dell'esistenza - essere senza un tetto, per esempio - perché non ci riuscisse di separare, illudendoci, il suo volto da altri volti che lui ha condiviso.
Allora forse anche questo è Natale: interrogarci se questa è una città. Questa che attraversiamo rabbrividendo, di notte.
Certo non basta indignarsi. Anche se - diceva Don Bruno Maggioni ai delegati si Sichem - "questa domanda è interna alla fede ed è, paradossalmente, il segno della giovinezza di un uomo. Giovane è chi, di fronte all'ingiustizia, continua a meravigliarsi e arrabbiarsi. Chi vi si adatta, osservandola con occhi distaccati, sarà (forse) un uomo licido, ma certo non è più un uomo giovane".

OLTRE L'INDIGNAZIONE

Leggo tra le note della Caritas Italiana per il nostro Avvento:
"I più poveri a casa nostra sono anzitutto le persone prive di copertura giuridica, come gli immigrati provenienti dai Paesi extracomunitari.
Anche se non sono riconosciuti dalla legge italiana, perché considerati irregolari, essi sono portatori di diritti umani: il diritto alla salute, al nutrimento, al lavoro, al rispetto della propria cultura e religione, all'istruzione, alla libertà di pensiero e di parola, e così via.
Sarà necessario premere per una nuova normativa, ma si dovranno pure attivare forme concrete di accoglienza, di dialogo, di servizio, di condivisione, di difesa contro forme risorgenti di rifiuto e di razzismo. Diversamente, dichiarandoci fratelli di tutti, recitiamo il falso".


TRA FORME DI RAZZISMO E SEGNI DEL TEMPO

Non possiamo nasconderci il risorgere preoccupante di forme di razzismo, spesso dovute all'enfasi posta su alcuni episodi che costituiscono l'eccezione, e al silenzio stampa posto su altre realtà più quotidiane che pure dovrebbero interrogarci.
Fenomeni vistosi di razzismo; ed altri più sottili e striscianti.
Guardo a volte con infinita tristezza quei vestiti che noi scartiamo perché non più consoni alla nostra immagine e dignità, che però, senza ombra di esitazione, riteniamo consoni all'immagine e alla dignità di altre creature.
Osservo spesso con infinita tristezza gli stranieri, ora occupati fra noi in lavori che noi non riteniamo più consoni alla nostra immagine e dignità, che però non esitiamo a ritenere consoni all'immagine e dignità di altri.
Quasi ci fossero immagini e dignità diverse sulla terra.
Potrò sbagliarmi, ma dubito sia questa la civiltà multirazziale che noi siamo chiamati a costruire. Non questo il segno dei tempi cui ci richiamava il nostro Arcivescovo:
"Spesso le nostre città presentano un volto stanco, manifestano l'inquietudine di una convivenza disordinata, l'oppressione di un crescente degrado ambientale, la stanchezza per le ragioni della costruzione politica, il disinteresse per la vita soprattutto per chi è malato, debole anziano, e forse anche una sorta di sazietà di fronte al "troppo" di proposte, di evasioni, di divertimenti.
Davanti a tutti questi problemi la collettività r gli individui tendono a ripiegarsi su se stessi, scaricando magari sul "diverso", sullo straniero, l'irritazione, l'insoddisfazione per la realtà che non riescono ad affrontare. Può essere l'emersione esasperata di un provincialismo antico che il progresso e l'aumentato benessere non hanno cancellato, svelandone anzi maggiormente il limite. I rumori della guerra ci possono apparire ormai lontani, la distensione internazionale finge da rassicurazione, le inquietudini interiori sono facilmente tacitate attraverso gli svaghi.
Tuttavia gli stranieri che invadono le nostre città sono un prezioso segno dei tempi, che ci sveglia e ci interroga. Non sono una presenza fastidiosa e importuna, ancor meno sono la causa di una decadenza che prepari un futuro minaccioso. Non sono, insomma, una maledizione, ma rappresentano una chance, anche per il rinnovamento della nostra vita.
Sta a noi scegliere se questa invasione sarà pacifica o conflittuale, se la nostra sprovvedutezza o intolleranza scatenerà un'intolleranza sociale, politica, religiosa ancora più terribile".

Su questi interrogativi si decide l'immagine di una città. Su questi interrogativi si decide la verità oggi del Natale.

don Angelo


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